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martedì 21 gennaio 2014

Illuminazione



Illuminazione. Ma vi garantisco che non cercherò mai di rimettere insieme la banda, anche se talvolta vedo la luce.

Quando meno te lo aspetti
In Duomo a Ivrea durante il battesimo di mio figlio?
Nel vento come Elia fuori dalla grotta?
Ed ecco che il Signore passò.Ci fu un vento forte e gagliardo, tale da scuotere le montagne e spaccare le pietre, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu il terremoto, ma il Signore non era nel terremoto .Dopo il terremoto ci fu il fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di una brezza leggera. Non appena sentì questo, Elia si coprì la faccia con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco sentì una voce che gli diceva: “Che fai qui, Elia?” …
In un panorama? Sulle montagne?
Nel dolore degli altri? Nel mio?
Come nella vita del cambiamento: quando meno te lo aspetti. Dentro un bar di Piazza San Carlo. Il Neuv Caval ‘d Brôns , fa ridere solo a dirlo. Figuiamoci a sentirlo.
Sottofondo pop di Madonna. Quella che canta, dico. La panna del caffè non era male, ma quella buona è un’altra. La prossima volta vado fino al Bicerin, così vado anche a mettere una candelina alla Consolata.
Accendo l’IPOD e scorro le parole del blog che leggevo ieri sera, un sacerdote che parla di Dio, del matrimonio, sull’amore per gli altri, sull’amore che vorrei dagli altri, sull’amore verso Dio e sull’amore di Dio per me. L’amore va MENDICATO, non si merita, si chiede, si mendica.
Null’altro. Simone Martini dipinge una Vergine quasi ritrosa. Un angelo splendente inginocchiato che mendica un sì, un’attesa.
Anche un angelo mendica amore.
Anche Dio, quindi.

Tutto il resto tace, finalmente.



Io sono una a cui si rovescia sempre il caffè.





Io sono un tipo che fa rovesciare il caffè sul gas appena pulito.
La mia amica Elisabetta, a sua volta, fa i “Pollock” quando brucia gli spaghetti nella pentola.
Lo tiro lucido, uso anche lo sgrassatore, il “degreaser” che mia suocera francese pronuncia elegantemente alla francese e quindi anche io ho deciso di darmi un tono e chiamarlo “degreasèr”, alla francese…
Pulire il fornello ha qualcosa di zen, di estetico, di bello. Pulire il piano del gas è un gesto preparatorio al rito del caffe. Magari la luce del mattino entra dalla finestra. E illumina il piano del fornello. E poi ti immagini che viene su il caffè, ti immagini il profumo, ti immagini a sorseggiare nella tua tazzina preferita la bevanda dei tuoi sogni. L’italica bevanda dei sogni.

giovedì 7 novembre 2013

La t-sharpa


Da qualche parte bisogna pure iniziare.
E’ da un anno che raccolgo materiale aspettando l’occasione giusta per riordinarlo e postarlo. La solita mania di essere sempre splendida.
Quindi, inizio.

La mia vita su internet si può dividere in due fasi: Ante Ginger e Post Ginger. Ginger è l’autrice di un blog di cucito e di vita. Fatevi un giro (wienerdogtricks.typepad.com). Fonte di ispirazione. Fonte di risate, commozioni ma soprattutto di “deja vù”. Non pensavo che si potesse essere come sono anche io.
Ginger suggerisce di fare una sciarpa con vecchie t-shirt. Lei è molto piu brava di me a spiegare come fare. E sul web troverete innumerevoli siti che vi insegnano a farla (ad esempio pm-betweenthelines.blogspot.it/2011/09/diy-infinity-scarf-tutorial.html oppure: myblessedlife.net/2011/10/t-shirt-scarf-tutorial.html)



Chiariamoci subito. Alcuni lavori di recupero, alcuni riadattamenti e ricicli che vanno tanto di moda rischiano di ricordarci il periodo dopo la seconda guerra. Le coperte fatte con gli avanzi di lana ci ricordano la povertà. Non le amiamo particolarmente. Riadattare una vecchia camicia ci puo’ ricordare il periodo in cui tagliavamo la punta alle scarpe vecchie diventate troppo corte.
Non sono povera.
Non sono particolarmente ecologista.
Semplicemente non riesco a disfarmi di oggetti e materiali che potrebbero continuare a vivere.
Provo a dare loro nuova vita.
Non appena prendono nuova vita, mi lasciano.
Difficilmente li conservo.




La t-shirt può avere un valore affettivo o può essere semplicemente nello stadio appena precedente al sacco per la Caritas.
Io ho scelto il blu e il nero, colori che tradizionalmente ci insegnano a non abbinare. Una brava ragazza torinese mette il nero in inverno e il blu in primavera.
Pazienza.
I colori chiari fanno un po’ “benda egizia alla festa di Halloween” e troppi colori fanno un po’ “avrei voluto avere 25 anni nel 68”.





Per prima cosa, disfate (ecco, tanto ci sarebbe da scrivere sul disfare)  le t-shirt per farne dei pezzi rettangolari della stessa larghezza (scartare maniche, colletti e bottoniere della polo e di questi non ho ancora capito cosa farne. Si accettano suggerimenti). Assemblate eventuali pezzi piccoli, per poi unirli in un patchwork di vostro gradimento. Ma della dimensione di una sciarpa.
Sciarpe piccole fanno un po' professoressa del liceo. Sciarpe grandi sono attualmente più portabili.


 E ora, provate voi a fotografarvi con una sciarpa addosso senza sembrare Pinocchio o Jabba da hut.


Procuratevi un amico.
Io ce l'ho. Indossa sciarpe. Ne ha un armadio intero. Almeno ha un posto dove metterla.


venerdì 7 dicembre 2012

Arte Domestica



Entrate nelle case degli altri. Prima cercate di ricordare le case delle vostre nonne, delle vicine delle vostre nonne, delle ziette che siete andate a trovare solo una volta, normalmente il giorno di Ognissanti.

Nel centro di Torino le ziette abitavano in un vecchio palazzo Liberty del centro, dovevi mettere 10  centesimi nell’ascensore per farlo partire, la zietta aveva splendidi orecchini e radi capelli dorati. E ti donava un gianduiotto che mettevi in tasca. E dopo qualche ora era tutt’uno con il maledetto pantalone grigio di vigogna che mettevi solo in quelle occasioni. E ti chiamavano “stellina”…
Oppure la zietta abitava in un palazzo con un sacco di campanelli, un sacco di scale, un sacco di corridoi. Odore di cucina sulle scale e il cartello: “è vietato il giuoco del pallone” oppure “è vietato l’ingresso agli ambulanti e ai meridionali”.  E sull’ascensore c’era scritto: si prega di chiudere le porte. Il divano e le sedie talvolta erano avvolti dal cellophane dove un cagnolino isterico tentava invano di salire.
A volte la zietta possedeva una stufa, in cucina, un capolavoro del design domestico, il potagè. A volte aveva galline e conigli un cortile e il bagno oltre il cortile. E un’infinità di gatti.
Ecco, in ognuna di quelle case tu sapevi – pensateci – o vedevi o toccavi almeno un manufatto, almeno una creazione fatta da una donna. Una tenda, un cuscino, una coperta, un abito, un golfino, un berretto, una babbuccia, un centrino, un grembiule, una presina, una torta, una marmellata, un succo di amarena (ritornerai, succo di amarena, ritornerai), una “giardiniera”. Non parlo di orti e giardini perché non conosco l’argomento.

Oggi resistono: quadri fatti con le foglie secche, sassi dipinti, e non mi viene in mente altro. Ok, qualche ricamo a punto croce.
Voglio sapere dove è finita l’arte domestica.
Non confezioniamo più tende, cuscini, maglioni, torte e berretti perché li comperiamo. Non capisco niente di economia ma so che abbiamo perso moltissimo. Non abbiamo più bisogno materiale di cucire un berretto o una presina. Quindi perdiamo l’arte, perdiamo la tecnica, la pazienza, la cura, l’attesa, le stagioni del caldo e del freddo, l’usura, e di nuovo l’attesa. Ha molto a che fare con la nostra sempre più labile salute mentale. Infatti adoriamo leggere libri mal scritti in chiave porno soft, facciamo nascere i figli con un colpo di bisturi, compriamo poliestere dai cinesi e ci caliamo tonnellate di ormoni e antidepressivi.
“Arte domestica” è un’espressione che mi ricorda tanto la scuola dalle suore nel dopoguerra dove si imparava a fare l’orlo “a jour”, o addirittura i “raduni della befana fascista”… ma mi piace, mi piace tanto. L’arte domestica non è più il nostro ruolo, il nostro dovere, la nostra normalità, la nostra quotidianità, il nostro piacere. E’ il nostro antidepressivo.
Vi prego, raccontatemi che cosa fate nelle vostre case per far sopravvivere l’arte domestica.

venerdì 26 ottobre 2012

Ecco da dove sono partita





E' solo un lato della faccenda. Sorridono tutti. Un uomo circondato da donne. Dite, sembrano eleganti? Sono belli? Due donne sono le donatrici della mia "arte domestica", del software. La terza è la donatrice dell'hardware. L'uomo è il padre di mio padre.
La ricerca della mia arte è la ricerca delle origini. Come tentativo di essere quello che sono a partire da quello che non ero ancora. Il futuro è un tuffo. Che profuma di latte e biscotti e delle confezioni dei Lego appena aperte.

venerdì 19 ottobre 2012

Primo post

Fischia il vento, infuria la bufera,
scarpe rotte, eppur bisogna andar...